Luca Ronconi

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Ho conosciuto Luca Ronconi quando nel 1999 divenne direttore artistico del Piccolo.
Quell’anno compivo trent’anni ed ero di un’insicurezza patologica. Timidissima e timorosa io, afasico lui, le nostre conversazioni erano degne di un film di Kaurismäki. Andare a parlarci mi richiedeva mezz’ora di training autogeno.
Una volta confidai questo disagio al mio capo di allora, Giovanni Soresi, che, incontrando Ronconi nella nostra mensa, gli riferì prontamente del mio terrore. Li vidi parlare e ridacchiare tra loro e intuii di cosa stessero conversando. Sperai nel distacco di una plafoniera dal soffitto, che mi seppellisse nella mia vergogna. Ronconi si girò verso di me e sollevando le braccia nell’atto di ringhiare come un leone, finse di farmi paura, come si fa con i bambini.
La paura svanì ma rimase l’inadeguatezza.

Poi ci furono alcuni spettacoli folgoranti. Il primo fu “Il sogno” di Strindberg. Lungo, difficile, a tratti faticosissimo, parlava di qualcosa che mi è molto vicino e costantemente presente: i ricordi d’infanzia.
Forse perché da me bambina si era preteso molto, trovai che la sensazione di non farcela, di non essere all’altezza delle aspettative altrui, fosse stata resa da Ronconi in maniera vivida ed empatica. Così cominciai a sintonizzarmi sul cuore di Ronconi, ma sempre con rispettosa e timorosa distanza.

Una persona che mi aiutò moltissimo ad addomesticare non tanto Ronconi di per sé, ma l’idea di Ronconi in me, fu Marcello Norberth, al secolo Norberto Manfrini, impareggiabile fotografo di grandissima parte del lavoro di Ronconi: nei momenti di maggiore annichilimento e timor panico (l’inadeguatezza di cui sopra), quando non sapevo come raccapezzarmi per trovare la strada per illustrare uno spettacolo, mi diceva “Leono’ guarda che se je fa schifo t’o dice e se nun t’o dice va bene”. Certo, come no.

Nel 2001 fu la volta di un altro spettacolo memorabile: “Il candelaio”. Lessi il testo nell’edizione Bur e mi fece orrore. Soprattutto mi chiesi quale oscuro demone spingesse Ronconi a portare in scena un simile ammasso di incomprensibili parole. Poi, sempre con Norberth, ci trovammo a Palermo, per le foto del programma di sala. Il debutto era fissato al Teatro Bellini e la mia insicurezza era accresciuta dal fatto di dover lavorare fuori sede, lontano da Giovanni, dal grafico Emilio Fioravanti, dai miei tipografi di fiducia, abituati a lavorare sui miei ritardi…
Lo spettacolo era straordinario. Quelle battute incomprensibili in lettura, in scena risultavano di folgorante chiarezza. Tutto funzionava a meraviglia. Compresi che il teatro ha il dono di dare la vita. La scena era formata da una serie di porte e botole che si aprivano, chiudevano, sollevavano, secondo un meccanismo assai complicato. Durante lo shooting fotografico, Norberth si era inopinatamente posizionato su una di quelle che era previsto si alzassero, diciamo così, “a catapulta”… Ronconi se ne accorse e gridò “Angeloooo, togli Marcello da lìììììì”, sicché il grande direttore di scena Angelo Ferro irruppe sulla scena, afferrò il minuto Norberth ponendoselo letteralmente sotto braccio e lo trasse in salvo evitandogli di spataccarsi in palco.

L’anno dopo, il 2002, ci fu “Infinities” alla Bovisa. Un’altra epifania. Un testo assurdo, allestito in un luogo assurdo, con un meccanismo assurdo. Risultato: un programma di sala assurdo, realizzato in condizioni assurde. Un’altra sfida, un’altra scoperta, un’altra vittoria. Ma avevo finalmente capito il senso di un’altra sua frase tipica: “In teatro si può fare tutto”.

Nel 2005 arrivammo a “Professor Bernhardi”, uno Schnitzler minore. Racconta la storia di un medico ebreo che distrugge la propria reputazione per impedire a un prete cattolico di impartire l’estrema unzione a una ragazza madre. La poveretta sta morendo di parto e il nostro Bernhardi preferisce darle la morfina e lasciarla scivolare inconsapevole nell’oblio, invece di “salvarle l’anima” precipitandola nel terrore della presa di coscienza della morte. Cosa ci leggeva Luca Ronconi?
Quell’anno votammo il referendum sulla fecondazione assistita, andò come sappiamo, ci ritrovammo la legge che sappiamo e capii perché avesse voluto fare quello spettacolo.

Nel 2010 ci fu “La compagnia degli uomini”. Lo spettacolo non mi esaltò, ma ebbe il pregio per me incommensurabile di farmi conoscere Edward Bond, uno spigoloso ottantenne che resta, ad oggi, un incontro particolarmente prezioso nel mio percorso umano e professionale.

Arriviamo a “Lehman Trilogy”, lo spettacolo in scena ora. Testo bellissimo, letto tutto d’un fiato quest’estate, amore a prima vista. Nello spettacolo si ripete la magia di “Bernhardi”: cast di fuoriclasse, recitazione come non se ne vedeva da anni (in Italia, ovviamente), successo straordinario di pubblico e di critica e la soddisfazione di lavorare a un programma di sala bello e interessante. Unico, enorme cruccio non aver seguito le prove come avrei voluto, dovendomi occupare quotidianamente di un mare di stupidaggini che sono diventate la sostanza del mio lavoro.

In mezzo, decine di spettacoli. Decine di spettacoli che non sempre mi hanno infiammato. E qui si pone la questione: bisogna dire all’artista che il suo spettacolo non ti piace? Secondo me sì. È impossibile che un artista le azzecchi tutte: dire sempre “bello, bello”, oltre ad essere tipico della categoria del leccaculo, alla quale grazie al cielo non appartengo, toglie valore alla reale preziosità delle cose. Così corsi il rischio e fui sempre sincera, con cautela, ma con onestà.

Poi ci furono le interviste, le chiacchierate estorte, i “questo non lo scrivere, rimane tra me e te”.
Dopo quindici stagioni, a quarantacinque anni, ero finalmente riuscita a non vivere nel terrore ogni volta che gli dovevo parlare. Lo disturbai durante le prove di “Lehman” per chiedergli informazioni sul prossimo triennio di programmazione, a causa di un demenziale formulario che il Ministero ci obbliga a compilare. Parlammo di “Timone d’Atene” che gli piaceva perché racconta la storia di un uomo circondato da ipocriti e disgustato da un mondo nel quale non si riconosce e che gli fa letteralmente schifo. Mica male.
Disse una frase che mi colpì molto. “Chi, come me, ha vissuto un’epoca come quella in cui ho avuto la fortuna di vivere non può rassegnarsi a quello cui siamo arrivati e, soprattutto, si chiede: come abbiamo potuto ridurci così?”
Certo, come abbiamo potuto, caro Luca. E pensa che tu, almeno, hai vissuto gli anni Sessanta e Settanta; quelli della mia età si trovano a vivere il loro tempo migliore tra Renzi, Fitto e Di Battista.

Infine ci fu un’ultima, bella chiacchierata, legata all’opera lirica, così tanto per parlare. A breve avrebbe dovuto allestire “Lucia di Lammermoor” all’Opera di Roma. Ne era entusiasta, l’opera gli piaceva moltissimo musicalmente e soprattutto non l’aveva mai portata in scena. Si parlò poi di Verdi che qualcuno mi aveva detto non essere autore nelle sue corde. Niente di più sbagliato. Gli dissi che la mia santa trinità era “Don Carlo”, “Trovatore” e “Forza del destino”, rispose con “Trovatore”, “Ballo in maschera”, “Don Carlo”, perché “Trovatore è tutto bello: è esaltante e commovente”.

Mi dispiace che sia morto in ospedale, lontano dalle sue cose, dopo aver vissuto mesi in una situazione provvisoria come un residence. Mi dicono che tale provvisorietà facesse parte del suo modo di stare al mondo. Forse.

Quando era stato in ospedale per l’operazione ai reni gli avevo portato in regalo “La casa del sonno” di Jonathan Coe, un romanzo per me fondamentale. Lo lesse ma mi disse che non gli era piaciuto. “Sai che non è il mio genere!”. Stava leggendo “Infinite Jest” di David Foster Wallace e quello gli piaceva parecchio di più. Poco male. Già il fatto che lo avesse letto mi era stato sufficiente. Per l’8 marzo prossimo venturo avevo pensato al cofanetto delle prime due stagioni di “House of Cards”. Secondo me gli sarebbe piaciuto. Chissà.

 

(foto Luigi Laselva)