Carte vincenti

houseofcards-main4Sono sempre stata un’addicted di tv series, ma è pur vero che dai tempi di “Black Beauty” – per andare al paleolitico dell’argomento – a quelli di “House of Cards” e “Game of Thrones” le cose sono cambiate. E parecchio. La protagonista di quella serie cult degli anni Settanta, la bellissima Judy Bowker – Vicky Gordon nella serie – conquistò il suo posto al sole nel cinema quando Franco Zeffirelli la volle per interpretare Chiara d’Assisi in “Fratello Sole e Sorella Luna”.
Un altro grande attore proveniente dalle serie tv è stato Robin Williams, tragicamente scomparso qualche settimana fa, per colpa del quale tutti abbiamo almeno una volta salutato dicendo “Nano nano” come Mork di “Mork & Mindy”.
In tempi più recenti, tra le star che dalla tv sono passate al grande schermo abbiamo avuto Pierce Brosnan (“Remington Steele”, tradotta orrendamente in italiano con il titolo “Mai dire sì”, che fu per lui l’anticamera di 007), Will Smith (“Willy principe di Bel Air”), ma soprattutto George Clooney (“E.R.”) per citarne solo alcuni.
Quel che accomuna tutti questi casi è la parabola “ascendente”: la tv è stata l’inizio di una carriera finalizzata a sfondare nel cinema.
Successivamente, prima, cioè, di approdare alle due serie di cui voglio parlare, si sono avute altre due situazioni tipo.
La prima è quella dell’attore in declino, o mai davvero “fiorito”, che grazie alla tv non solo non è scomparso dalla superficie del video, ma è diventato celeberrimo. Due esempi: Michael Petersen, attore straordinario (se non avete visto “Vivere e morire a Los Angeles” colmate immediatamente questa lacuna) mai opportunamente valorizzato sino a quando una persona intelligente gli ha affidato il ruolo di Grissom in “CSI – Las Vegas”; Sarah Jessica Parker, che gli aficionados ricorderanno per un paio di ruoletti deliziosamente “gnè gnè” (pattinava in un museo con Steve Martin in “Pazzi a Beverly Hills”, era l’amante del marito di Bette Midler ne “Il club delle prime mogli”) ma che da quando è diventata Carrie Bradshaw è più famosa di Ingrid Bergman.
La seconda è quella dell’attore tutt’uno con il proprio personaggio, al quale sovente si deve anche il titolo alla serie. Due esempi: Michael C. Hall – “Dexter”, Hugh Laurie “Dr. House”.

E veniamo a noi e all’oggetto di questo post. Parlerò di “Game of Thrones” e di “House of Cards” perché sono due serie che sto seguendo con particolare attenzione. Ovvio che ci sono altri casi interessanti – “Mad Men”, “Breaking Bad”, “Lie to Me” – per citare i primi che mi vengono alla mente, ma preferisco parlare di quel che conosco.
“Game of Thrones” e “House of Cards” nascono entrambe da un’opera letteraria. Celeberrima è la serie di romanzi fantasy firmata da George R. R. Martin, autore vivente e peraltro attivamente cooperante con gli sceneggiatori della serie “dei draghi”; decisamente meno famoso è il romanzo del britannico Michael Dobbs, già consigliere di Margaret Thatcher nonché portavoce e vicepresidente del Partito Conservatore britannico, adattato da Beau Willimon per la serie americana prodotta da Netflix.
Grandiosa, in entrambi i casi, la sceneggiatura che ne è stata tratta. Perché funziona così bene?
1 – I dialoghi sono credibili: sembrano scritti da qualcuno che è un incrocio tra Hemingway, Follett e Fielding. Sembra assurdo, soprattutto nel primo caso, ma funziona. Eppure i rischi ci sono, sono evidenti e soprattutto continui: franare nel fumettone sentimentale, esagerare (troppo sesso, troppo sangue, troppa cattiveria), all’opposto banalizzare, cioè essere troppo schematici (buoni/cattivi, onesti/imbroglioni…), complicare, richiedendo cioè allo spettatore un’eccessiva attenzione nel seguire l’albero della trama e così via.
2 – I personaggi diventano persone di famiglia. Per un magico algoritmo, queste figure di fantasia si trasformano in creature più vive delle vive, capaci di suscitare in noi sentimenti di empatia da TSO immediato: amore, odio, tenerezza, amicizia. Come e più dei vivi.
3 – I rivoli narrativi. Con questa espressione mi riferisco ai molteplici rami che partono dal tronco narrativo principale. Non sono solo i protagonisti delle serie ad essere figure scolpite a tutto tondo. Qualunque comprimario ha un motivo per suscitare interesse, per farci ricordare il suo nome, per farci appassionare alla sua storia.

Gli attori. Di “HoC” non è neanche il caso di parlare: Kevin Spacey e Robin Wright nei ruoli principali dei coniugi Frank e Claire Underwood sono  di per sé una garanzia. Ma consideriamo anche Kate Mara (Zoe Barnes), Corey Stoll (Peter Russo), Michael Kelly (Doug Stemper): non esiste soluzione di continuità tra loro e i due mattatori.
Quanto a “GoT” mai mix tra vecchie glorie, attori del momento e debuttanti fu più azzeccato: da Charles Dance (Twyn Lannister), allo strepitoso Peter Dinklage (il nano Tyrion Lannister), alla splendida e giovanissima Emilia Clarke (Daenerys Targaryen) anche qui non incontriamo cadute di livello.

La lingua. Il mio consiglio è sempre quello di ascoltare tutto in lingua originale. I titolaggi ultimamente sono fatti con cura e vi consentono di non perdere nulla dei dialoghi; inoltre nella lingua originale avrete modo di apprezzare la cura per le sfumature che il doppiaggio, inevitabilmente, azzera: nel caso di “GoT”, ad esempio, l’accento è strettamente legato al censo, al ruolo e alla provenienza geografica dei personaggi: tutti parlano ovviamente, in inglese, ma ciascuno in un inglese diverso da quello degli altri. Una meraviglia. Poi c’è anche il dothraki, la lingua parlata da Khal Drogo, che lungi dall’essere inventata a caso, possiede accurate grammatica, sintassi e vocabolario, coerenti in tutte le puntate.
Anche nella Washington di “HoC” si parla un americano diversamente accentato: Frank, che è originario della Carolina del Sud, denuncia palesemente la propria radice “meridionale” con un accento un po’ strascinato ben diverso da quello della moglie o del Presidente Walker, o di Peter Russo che è della Pennsylvania.
Spendiamo a riguardo una parola sui doppiatori. Entrambi i prodotti sono doppiati in maniera eccellente. Perché le serie sono doppiate così bene, mentre gli attori protagonisti delle fiction nostrane, quelli che ci mettono anche la faccia, oltre alla voce, parlano con accenti raccapriccianti? Non è dato sapere.

Conclusioni. Dove voglio andare a parare con questa mia riflessione?
Non dirò nulla di nuovo, se anche Kevin Spacey stesso ha dichiarato che oggi, per leggere una sceneggiatura veramente interessante, un attore deve rivolgersi alle serie tv.
In un cinema in cui si va avanti a numeri 2, 3, 4, 5 di blockbuster costruiti a colpi di effetti speciali, per rintracciare prodotti scritti con cura occorre accendere la tv o il computer.
Dove ci stiamo posizionando?
Di sicuro verso una fruizione domestica, a casa propria, sulla tv a pagamento o sulle reti internet.
Al cinema si va per il 3D, per il film che richiede lo schermo immenso o curvo, o all’opposto per il prodotto d’essai, sempre più spesso proveniente dall’estremo oriente, dall’est europeo, dall’America Latina.
Stiamo vivendo un cambiamento epocale, una rivoluzione del prodotto cinematografico.
Che succederà? Staremo a vedere. Che dato l’argomento…